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Pearlchild I - Cap 1.2 "Scatola"

  • Immagine del redattore: mizar106
    mizar106
  • 24 gen 2023
  • Tempo di lettura: 16 min

Aggiornamento: 6 feb 2023



Raggiunta la piccola porticina sul retro, tirò la cordicella e con un sospiro posò la stampella appoggiandosi col fianco contro la colonna. Una blanda sensazione di disagio prese tutt’un tratto a formicolarle in testa mentre aspettava. Per un attimo, pensò di sentirsi troppo stanca per capire cosa fosse e da cosa dipendesse. Poi, finalmente, fissando il dolce dondolio della campanella che s’attutiva sulla sua testa, cominciò a capire. Si sentiva stanca. Stanca e nuovamente infastidita da quella vita così opprimente e buia, come se i confini della sua esistenza si fossero improvvisamente ridotti a una scatoletta e il solo modo d’interagire con l’esterno fossero due spioncini. Di questi, il primo la teneva in qualche modo sempre legata a casa. Il secondo invece comunicava con l’ospedale. Per cui, almeno nel primo caso, avrebbe potuto continuare a sentirsi un po’ più protetta e comoda e non si sarebbe rammaricata troppo. Lassù nella sua stanza, dopotutto, aveva sempre conservato tutto e col tempo era riuscita a non farsi mancare niente: la sua raccolta di romanzi preferita, il collage di ritagli e brillantina regalatole dalle sue ex-compagne, la villetta in miniatura, un enorme e goffo elefante rosa di pezza e gomma. Infine, l’armadietto in legno di ciliegio che tanto l’aveva colpita poco dopo che sua madre l’aveva lasciata.

Da circa un anno se l’era fatto spostare appositamente in camera e lo aveva fatto ridipingere di bianco abbellendolo qua e là di ghirigori con dei pennellini. Poi aveva chiesto a Zia Wendy di svuotarlo di tutte le cose vecchie che c’eran dentro per ripulirlo e sistemarci dentro i suoi vestiti preferiti e qualche bel cappello.

La mattina presto (ma talvolta anche la sera), concluso il pasto, la frescura e il bagliore delle prime giornate estive la invogliavano di tanto in tanto a disfarsi del pigiama e perlustrare l’armadietto per indossare l’abito o la camicetta che più le piaceva o che le andava a genio. Col passar degli anni, il giallo era diventato di gran lunga il suo colore preferito. Così, anche il suo armadietto era andato sempre più tingendosi di una festosa varietà di toni caldi e pastellati che sfumavano dal paglierino al color crema per tutta la durata della primavera e della stagione estiva. Poterli sfoggiare l’uno dopo l’altro a suo libero piacimento e ogniqualvolta lo desiderava era ormai il suo unico vero divertimento e questo, di tanto in tanto, la faceva sentire libera. Un pregio che le ragazzine della sua età non conoscevano e che in normali circostanze non sarebbero nemmeno state in grado di conquistare.

Il rigido costume di quegli anni infatti, imponeva ai giovani delle classi meno abbienti il rispetto degli schemi e una fitta trama di regole ed obblighi sociali sempre più severi. D’altro canto, gli strascichi di una guerra proseguita per due anni e mezzo non erano che all’inizio e sarebbero durati a lungo. Così, specialmente nelle famiglie più numerose e fragili, accadeva che i più piccoli crescessero dietro un’educazione intransigente che impartiva fiumi di comandi e che per il resto non concedeva spazi. Chi finalmente scavalcava i sedici anni, d’altronde, celebrava il suo traguardo soffocando ingenuamente nell’orgoglio la caterva di principi e convenzioni con le quali aveva convissuto, ma attaccandosi pur sempre a una dottrina dove l’imprescindibile rifiuto di qualunque forma di cambiamento costituiva spesso il l’unico vero abri alle pesanti conseguenze della grande crisi.

Riguardo al cibo, il razionamento delle scorte alimentari s’era fatto ancor più duro e aspro, e aveva indotto le famiglie a calendarizzare i pasti sulla base delle provviste che venivano via via rese disponibili da una settimana all’altra. E poi le sacrosante norme sull’abbigliamento e le altre cose da indossare a seconda delle circostanze o delle esigenze; il completino per la scuola e un secondo paio (perfettamente identico) da utilizzare rigorosamente come ricambio per la settimana dopo. E ancora l’abitino della domenica e quello da indossare unicamente in occasione delle ricorrenze, il vestito per la festa con gli amici e quello da esibire ai parenti o in concomitanza di precisi momenti conviviali.

Così, da quando i medici le avevano consigliato di rinunciare alla scuola e rimanere a casa, un unico insistente pensiero le brulicava in testa: appoggiarsi il più possibile all’affetto e alla solidarietà della famiglia per svincolarsi dagli schemi e sfidare l’oppressione di quei giorni con qualunque mezzo.

Fra le tutte le cose che aveva cominciato a chiedere (oltre alla libertà di vestirsi come più voleva), quella di farsi portare dei piccoli quaderni su cui scrivere era la più importante.

Adorava le poesie sulla natura e i saggi di storia e arte contemporanea delle Grandi Case Occidentali* erano la sua passione. Da tempo la scuola l’aveva avvicinata ad autori del calibro Peter Brahms e J. Heinkel, e a soli otto anni aveva imparato a memoria tutti i Ventun Canti dell’Oracolo e in poco più di un mese vi aveva scritto un saggio. Quando la guerra sempre più dilagante la costrinse assieme a tutta la famiglia ad abbandonare casa e trasferirsi altrove, anziché trascorrere il suo tempo con le altre bambine si ritirava per ore e ore in dormitorio e si metteva a scrivere.

La generale convinzione della preside (e anche di ben più di un’insegnante) era che lei fosse sempre stata di un livello di gran lunga superiore a quello delle altre allieve, e perciò la sua perdita, per quanto triste e inverosimile, era pressoché incolmabile. Una fresca mattina di primavera, sul finir della lezione, Mrs. Huggins, la sua maestra preferita, l’aveva appositamente fermata per elogiarla e incalzarla a coltivare la sua passione perché aveva un gran talento e un giorno sarebbe potuta diventare autrice. Un dolce soffio di stima e benevolenza che quella mattina Rachel non fu in grado di comprendere, ma che adesso le scaldava tutt’un tratto il petto e le faceva palpitare il cuore per l’imbarazzo.

Pochi giorni prima di lasciar la scuola, ricordandosi dell’episodio, Rachel aveva supplicato a lungo sua zia di insistere con la direttrice affinché la signorina Huggins potesse seguirla di persona e continuare ad occuparsi della sua didattica come aveva sempre fatto. La direttrice però, dopo qualche tentennamento, preferì non assecondare la sua richiesta sostenendo che circolavano da tempo fra le famiglie certe donne giovani e garbate che offrivano assistenza e che s’erano specificatamente preparate per quello scopo.

Così, nel giro di qualche settimana, era spuntata a farle visita una minuta ragazza bionda dagli occhiali enormi. Arrivava sovraccarica di testi e plichi di paragrafi di geometria e algebra da ripassare e quando spiegava s’incartava spesso. Quando Rachel le aveva chiesto che ne sarebbe stato del recupero di lingue e dell’eserciziario di grammatica lei subito aveva arricciato il naso e poi, dicendole di non distrarsi, s’era messa a ridere. Col passar dei mesi la sua nuova maestra s’era fatta sempre più puntigliosa e rigida, e nonostante il disappunto e le perplessità di Rachel sulla sua effettiva permanenza come insegnante le lezioni erano proseguite in modo relativamente tranquillo e senza troppi intoppi. Ma poi un giorno Lizzie, non riuscendo più a trattenersi, aveva cominciato ad elaborar l’idea che se l’avessero bersagliata con qualche marachella o altro dispetto ben studiato lei avrebbe perso le staffe e poi, finalmente, in preda ad una crisi isterica, avrebbe levato le tende e non sarebbe fatta mai più vedere...

Fu proprio ciò che accadde da lì a distanza di pochi giorni: forte della sua anarchica eleganza, la piccola Elizabeth era riuscita a pianificare ed orchestrare ogni cosa senza tralasciare niente. Perfettamente consapevole di tutte le terribili cose che un’amica casinista come Lizzie avrebbe potuto combinare a quella sciagurata donna, la piccola Rachel, quella volta, le aveva concesso carta bianca e non le si era minimamente opposta. L’obiettivo principale di Lizzie era consistito nell’addestrar Pasticcio ad espletare quotidianamente i suoi bisogni sul cofano dell’auto della giovane maestra, non appena questa la parcheggiava lungo la strada e s’allontanava a passo svelto per la lezione. Poi, mentre questa si svolgeva, si metteva a gironzolar per la campagna a catturare moscerini e altri piccoli insetti fastidiosi da spargerle sopra il parabrezza con della frutta. Così, dopo appena qualche giorno, la povera Greta (aveva espressamente chiesto a Rachel di esser chiamata col suo nome, fatto curioso e alquanto raro, almeno per quei tempi) non poté fare a meno d’intrattenere gli zii in lunghe e burrascose discussioni sempre più imbottite di lamentele e toni accesi ogni volta che arrivava e si presentava tutta nervosa per la sua lezione.

Poche settimane dopo la sua fuga, Mrs. Huggins aveva finalmente scritto a Wendy chiedendo espressamente di poter andare a trovare sua nipote per sincerarsi delle sue condizioni ed incoraggiarla a non lasciarsi andare. Così Rachel, sentendosi un po’ meglio al rientro da un ricovero un po’pesante e lungo, aveva cominciato a mostrarle alcune delle sue poesie migliori e s’era rimessa a scrivere.

Sin dal primo anno, l’ammirazione e la fiducia che nutriva per la sua ex-insegnante eran pressoché intoccabili e anche nel corso degli anni erano rimaste tali. Quando la gentile maestra, alla fine di ogni visita, s’alzava in piedi e con una carezza si chinava verso di lei per salutarla, un formicolio improvviso le percorreva velocemente il collo e d’un tratto le bloccava il fiato. Un’ emozione che le faceva sobbalzare in petto e poi le risaliva in gola fino a sbocciarle sulla bocca in parole e frasi che si facevano ogni volta sempre più simili tra loro e nemmeno si rendeva conto di pronunciar davvero:

“Signorina Huggins, tornerà a trovarmi? Signorina Huggins, lo sa che mi mancano moltissimo le sue lezioni? Signorina Huggins, se le fa piacere, può restare. Signorina Huggins?”

Poi, con l’arrivo dell’estate, Mrs. Huggins aveva finalmente cominciato a portarle dei libri ed era andata a trovarla spesso.

Da lì a poco però, il senso d’inquietudine e pericolo della popolazione davanti ad una guerra sempre più imminente avrebbe costretto le famiglie a lasciare progressivamente le proprie case per rifugiarsi verso nord al riparo dal fulcro delle manovre militari e da ogni eventuale attacco. E quando Rachel, ormai sempre più preoccupata, aveva dovuto insistere con Lizzie per avere al più presto notizie dalla scuola e dai suoi insegnanti, le venne finalmente recapitata a casa una lettera riportante in poche righe le principali problematiche dell’istituto e le sue dolorose scelte. Quanto a Mrs. Huggins, la giovane maestra era sparita tutt’un tratto come un fantasma e non aveva più fatto sapere nulla. Poi, dopo quasi un mese, la donna s’era nuovamente fatta viva con un telegramma e scusandosi per il silenzio le spiegato tutto. Aveva raccontato di essersi dovuta trasferire al nord per scappar dai bombardamenti e dalle zone a rischio, pregando per il marito perché abbandonasse il fronte e tornasse ad assisterla per la gravidanza come le aveva promesso.

Al ricordo della sua giovane insegnante, un sottile brivido di tristezza le attraversò il petto fino a chiudersi in un limbo di frammenti e minuscole immagini sbiadite da gettar lontano:

“Dio che faccia stanca, ma che hai fatto? Ti senti bene?”.

La robusta sagoma di zia Wendy era appena spuntata sulla porta squarciando il velo di penombra al di là dell’uscio.

Rachel riafferrò la stampella e con aria assente attraversò l’ingresso:

“Tranquilla zia, sono solo stanca...” bisbigliò quasi di malavoglia “Lizzie s’era quasi offerta di riaccompagnarmi a casa ma era un po’ di fretta, così ci siamo salutate prima”.

“Ah... hai di nuovo lasciato una delle due stampelle in camera...” borbottò la donna “Insomma, quante volte te l’ho dire... dovresti abituarti ad usarle entrambe, quelle stampelle!. Ricordi il dottore cosa ha detto, devi imparare a comportarti come si deve se vuoi guarire...” Ancor prima di terminar la frase, la donna aveva afferrato la nipote per il braccio e sballottando ripetutamente la mano su e giù sulla sua gonna per darle una ripulita l’aveva accompagnata dentro.

“Ma Zia, te l’ho già detto...” mugolò Rachel, sospirando appena “Adesso che va meglio l’altra non mi serve più. Oggi ad esempio, ho camminato tutto il tempo assieme a Lizzie senza sentire niente!”.

Il tono della voce di zia Wendy s’ammorbidì, ma senza tuttavia privarsi di quel suono autoritario che sovente animava le serate quando zii e nipoti si ritrovavano solitamente a tavola per cenare assieme.

“Rachel, per favore...” attaccò “Tanto per cominciare, pulisciti quelle scarpe... lo vedi come le hai ridotte. E cielo... guarda quelle gambe... se stasera ti si gonfiano di nuovo giuro che mi senti urlare!”.

Rachel strofinò impazientemente le suole contro il tappetino e poi, tenendosi ben salda al braccio di zia Wendy attraversò il soggiorno e s’avvicinò alle scale. Un lungo e sarcastico sospiro le scappò di bocca non appena fece scivolare le dita sopra il corrimano:

“Preferirei che mi si riempissero di bolle così non le puoi bendare!”. Una risatina di sfida le aveva appena piegato le labbra costringendola a voltarsi dall’altra parte per non dar nell’occhio.

“Lo trovi forse divertente?” tuonò la donna, scrollandole di colpo il braccio con uno strattone.

“Tuo zio ed io non facciamo altro che preoccuparci della tua salute ogni santo giorno...”.

Un sottile velo d’emozione le aveva appena spezzato la voce, costringendola a stringere le labbra per un istante.

“Ah, se solo il Dottor Simmons si decidesse una volta tanto a darti le medicine giuste...”.

Spinta da un rimorso improvviso, Rachel si voltò verso di lei e stringendole timidamente il polso le scostò la mano:

“Zia Wendy, mi dispiace...” disse quasi sottovoce, abbassando gli occhi.

Nei secondi di silenzio che seguirono, il volto di zia Wendy si fece più disteso e assorto..

Rachel deglutì. Le sue pupille color nocciola dondolarono esitanti sulla scala chiedendosi se sua zia le stesse ancora tenendo il broncio.

Un legnoso cigolio accompagnava ora la loro salita risuonando per un attimo in una sequenza di lamenti irregolari e brevi, poi Rachel disse:

“Zia Wendy, Lizzie dice che il Dottor Simmons e i suoi colleghi in realtà sono degli incapaci, secondo te è vero?”.

La donna fece un respiro e lanciandole un’occhiataccia disse:

“La tua vicina dice troppe cose...”.

“Ma se fosse vero?!” sussultò Rachel. “Forse, non sono così bravi come dicono. Forse sono solo dei confusionari e basta. Per quello non riescono a trovare la cura giusta...”.

Giunti in prossimità del pianerottolo, la donna si fermò fissando la nipote con una strana aria di disappunto e noia. Tirò un sospiro e con un pizzico amorevolezza le accarezzò la guancia fino a sfiorarle la piccola voglia rossa che aveva sotto la palpebra.

“Tesoro...” bisbigliò “Lo sai che è una questione complicata, devi sopportare...”.

Rachel fece una smorfia e con uno scatto scostò all’indietro la testa senza aprir bocca.

Una manciata di secondi più tardi erano entrambe in camera. Rachel se ne stava immobile seduta sul proprio letto con le braccia alzate, lo sguardo puntato sulle operose mani di zia Wendy che la svestivano:

“Vorrei che cambiassimo ospedale” disse improvvisamente, quasi in tono di sfida.

“Lo sai che non possiamo”.

“E perché no? Ci sono un sacco di altri posti mi pare...”.

Le dita di zia Wendy si districarono impazientemente tra un bottone e l’altro fino a sfiorarle il collo.

“Non so di cosa parli...” sentenziò zia Wendy. “A ogni modo, trovo che il Saint Laurent resti in assoluto uno dei migliori ospedali che ci siano in zona. Ci sono un sacco di persone che son andate lì a farsi seguire o curare e che io sappia non s’è mai lamentato nessuno. Avanti, girati dall’altra parte”.

Rachel strinse gli occhi e nello stesso istante anche le sue labbra si ritrassero di colpo in una lunga curva.

Zia Wendy nel frattempo non aveva più aperto bocca. Aiutò Rachel a infilarsi nella camicetta da notte e con la solita accortezza le sistemò le maniche e le allacciò il colletto. Poi prese il bel vestito color crema e dopo averlo sfregato con il palmo per rimuovere una macchietta lo risistemò sull’appendino e lo mise via:

“Ah, hai visto come l’hai sgualcito...” commentò con lo sguardo ancora rivolto verso l’armadietto. “Sarà il caso di dargli una stirata non ti pare?”.

Rachel s’intrufolò nel letto e sbatacchiò alla rinfusa le coperte alla disperata ricerca di un comodo pertugio in cui infilar le gambe.

“In realtà vorrei portarmelo domani...” disse con aria delusa. “Quello e anche il pigiama di zia Flore che m’avevi preparato ieri. Quello con i fiorellini...”.

Le labbra di zia Wendy si contrassero in una smorfia per la stanchezza:

“Rachel...” disse sbuffando..

“Zia, ti prego! Non voglio restare tutto il tempo con quell’orribile vestaglia addosso... è in assoluto la cosa più indecente che abbia mai messo, mi da fastidio!”.

“Lo sai che non si può, devi pazientare”.

Rachel fissò lo specchietto a forma di mela gialla appeso davanti al letto e con uno scatto nervoso scacciò via la coperta scaraventandosela tra i piedi senza dire niente. Quindi sollevò la testa.

“Continui a dir così ma in realtà sono sicura che non glielo hai mai chiesto” disse strofinandosi la guancia in corrispondenza della piccola voglia rossa sotto la palpebra.

Subito la donna le si sedette accanto e con delicatezza le affondò una mano tra i capelli fino a sfiorarle il viso.

“Finirai di nuovo per affaticarti se non ti stendi...” disse con voce sorprendentemente calma. Quindi fece per interrompersi:

“Ah, è ora di cena” sussultò. “Sarà meglio che torni giù, tuo zio sarà di ritorno da un momento all’altro...”.

La donna le riassettò le coperte e con un timido sorriso fece per uscire dalla stanza e s’appoggiò alla porta. Non appena si voltò, Rachel afferrò il lembo superiore della coperta e con uno scatto si coprì le spalle:

“Zia...”

“Si?”.

Rachel esitò. Gli occhi sonnolenti e lucidi, rivolti verso un angolo della stanza come se un vago ripensamento l’avesse improvvisamente costretta a fare un passo indietro.

“No, n-niente...”.

Per un istante aveva sentito il bisogno di dirle qualcosa di gentile o di ringraziarla, ma la fiacca e la pigrizia l’avevano come bloccata:.

“Pensa a riposarti mentre vado a preparar la cena”. E così dicendo s’allontanò.

Non appena la donna uscì dalla camera, Rachel sollevò gli occhi verso il lampadario e poi scostando lo sguardo contro il soffitto si morsicò le labbra. All’improvviso, un fremito di disgusto le attorcigliò lo stomaco al pensiero dell’immagine dei medici che sfrecciavan senza sosta lungo la corsia pediatrica e che afferrandole le braccia la tenevan ferma.

Ancora una volta, se solo avesse la facoltà di scegliere, ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Da qualche mese, aveva avuto come l’impressione che tutto ciò che il Dott. Simmons le aveva raccontato e promesso non le importava affatto. Eppure la fiducia che da tempo aveva riposto in quegli stessi uomini l’aveva tenuta in sesto.

Per un lungo periodo, se le capitava di star male, le bastava riveder sua zia e sprofondare sfogandosi fra le sue braccia per ricordarsi che non era sola e che con un po’ di pazienza si sarebbe rimessa in forze. Ma poi i medici avevano cominciato a richiamarla e a visitarla spesso, trattenendola per dei giorni dentro la struttura e segregandola ogni volta in una stanza fredda e smorta nella quale soffocanti figure ricoperte di bianco o azzurro passavano di tanto in tanto a prenderla per esaminarla e riportarla in camera.

Sul suo stato di salute, per un po’ di tempo, il Dottor Simmons, il primario, era rimasto cauto e non aveva voluto sbilanciarsi finché una logorante riunione coi colleghi non finì per gettare un po’ di luce sulla vicenda e non gli fornì una spinta. Il giorno seguente, aveva finalmente richiamato Met e Wendy nel suo ambulatorio e con instancabile prudenza gli aveva raccontato tutto. Dopo alcuni giri di parole, aveva cominciato a parlare di una rara anomalia genetica che impediva alle fibre dei suoi muscoli di ripararsi correttamente e di continuare a crescere. Malgrado lo smarrimento iniziale, Met e Wendy avevano accettato la notizia con ragionevolezza e mettendosi in disparte s’erano guardati in silenzio negli occhi e s’eran fatti forza. Una volta ritornati a casa però, per un po’ di giorni, avevano preferito non dir niente per evitare che Rachel si spaventasse e che suo fratello ci rimanesse male.

Perciò, per i primi mesi, s’erano semplicemente limitati a dirle che aveva i muscoli un po’ fragili e che crescendo sarebbe prima o poi guarita. Ma dopo neanche un anno, i bruciori alle ginocchia e la sensazione delle gambe un po’ pesanti e molli s’erano fatti via via sempre più frequenti e intensi, e Rachel fu costretta a far ritorno all’ospedale per sottoporsi ad altri esami ed affrontare i medici. Quella volta, nel cercare di calmarla, le avevano spiegato che sarebbe stata solo questione di qualche giorno e poi finalmente sarebbe potuta uscire. Ma poi la seconda notte Rachel s’era sentita improvvisamente molto male e gli infermieri erano dovuti venirla a prendere; delle fitte lancinanti all’addome e un febbrone da cavallo da rivoltarle i sensi, di quelli che ti scottano la pelle e con un dolore martellante ti prosciugano pezzo dopo pezzo fino a liquefarti i muscoli. Zia Wendy, che in quel momento era lì con lei, s’era fatta subito prendere dall’angoscia e siccome non l’aveva mai vista soffrire in quel modo s’era messa a piangere. Met e Matias invece si trovavano ancora casa, e subito dopo la chiamata s’erano precipitati in viaggio, nel cuore della notte, a bordo di uno sgangherato furgoncino bianco che già in ben più di un’occasione li aveva lasciati a piedi.

All’inizio il Dr. Simmons e i suoi colleghi avevano associato l’episodio agli effetti degli antidolorifici o di qualche altro farmaco, ma dopo poco tempo dovettero ricredersi, e nonostante la sfilza di referti e altri dati tra le mani si limitarono a discutere tra loro e non alla fine seppero ricavarci niente.

Il giorno seguente, avevano subito richiamato Wendy per spiegare che il caso era complesso e che perciò avrebbero dovuto tenere sott’osservazione la piccola per parecchio tempo. Alla famiglia Rossmann, perfettamente consapevole della situazione e della pericolosa evoluzione della malattia, non restò che rassegnarsi ed accettare ancora una volta la realtà sforzandosi di affrontarla a viso aperto come aveva sempre fatto: finché non avessero ottenuto una diagnosi più precisa, occorreva valutare nuove piste ed esaminare attentamente il caso sotto ogni aspetto. Da quel giorno, Rachel era rimasta in ospedale per quasi un mese e a causa delle raccomandazioni dei dottori non era più potuta uscire.

Di quel lunghissimo ricovero adesso, non le restava che il ricordo di un convulso via-vai di medici e infermieri che la tempestavano di domande e a intervalli regolari le somministravano punture e grosse pastiglie amare da ficcare in bocca.

Dopo un po’ di tempo però, erano spuntate certe nuove medicine senza alcun sapore e lei aveva iniziato a sentirsi bene. Poi, finalmente, una piovosa domenica d’Ottobre, il Dr. Simmons l’aveva fatta dimettere e siccome Rachel avrebbe presto compiuto gli anni s’erano commossi tutti. Matias e Met, che già ribollivano di gioia, avevano sparso la voce a cugini e parenti spiegando che Rachel s’era ripresa e che da lì a poco ci sarebbe stata una grande festa. Ma nonostante tutti i buoni auspici, il calore e la pace di quei giorni non poterono durare a lungo, perché anche dopo molte settimane la vita di Rachel non era stata che un nuovo, estenuante carosello di raccomandazioni e farmaci che parevano non darle tregua e sempre più sovente la obbligavano a rimanere a letto. Riguardo alla malattia, nessuno dei dottori che l’avevano seguita era ancora riuscito a darle un nome o a capir più chiaramente da cosa dipendesse. Poi, finalmente, alcuni mesi più tardi il Dottor Simmons aveva di nuovo ricevuto Wendy e Met nel suo studio e accogliendoli con aria stremata gli aveva raccontato tutto.

A un certo punto però, aveva iniziato a parlare in modo strano e il tono della sua voce s’era fatto più severo e cupo. Un vocabolario di termini medici e scientifici talmente complessi e arzigogolati da scalfirti in un attimo la mente fino ad annebbiarla. Quando Wendy e Met gli avevano chiesto di spiegarsi meglio, lui aveva fatto un lungo respiro e fissandoli con aria torbida aveva messo via gli occhiali ed era rimasto zitto.

All’improvviso, frasi taglienti come lame erano spuntate a raffica dalla sua bocca e Wendy, abbandonandosi a qualche lacrima, s’era strofinata gli occhi e poi, afferrando con violenza la mano di suo marito se l’era trascinata sul ginocchio ed era rimasta immobile.

Stando a quanto il medico aveva detto, le condizioni di salute di Rachel erano diventate sempre più ingestibili e nel giro di pochi anni sarebbero peggiorate ancora. Poi, nell’esporre più dettagliatamente il quadro, aveva anche specificato che la fragilità motoria che l’affliggeva era legata in qualche modo ad alcune emorragie che perduravano da tempo dentro il suo intestino e che per questo avrebbero dovuto operarla a breve. Dopo averle ripetuto qualche lastra infatti, un medico un po’ esperto s’era insospettito e consultandosi con Simmons gli aveva fatto notare che nella parte inferiore dell’addome c’erano delle macchioline. La diagnosi che ne era uscita era stata questa volta molto più decisa e netta e non lasciava scampo: a causa di un raro difetto genetico, alcune delle cellule contenute nel suo sangue erano come impazzite e anziché proteggerla la stavano aggredendo intaccandone lentamente i tessuti fino a farli a pezzi. Poi all’improvviso zia Wendy s’era sciolta in un pianto strozzato e il Dott. Simmons, preso da un nervoso imbarazzo, aveva cercato di confortarla ribadendo di impegnarsi a dare il massimo e prendersi cura della bimba a qualsiasi costo.

La sera di quello stesso giorno, tornando a casa, la povera donna aveva approfittato di una sosta per acquistare un piccolo portafortuna a forma di rondine e stringendoselo forte al palmo aveva cominciato a pregare sua sorella affinché potesse nuovamente scendere nel loro mondo per rimanerle accanto. Per quanto tempo, non avrebbe saputo dirlo a nessuno, ma sapeva che era necessario e poiché sentiva che una luce nel suo cuore si stava lentamente spegnendo non era più riuscita a smettere.

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