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Pearlchild I - Cap 4.2 "Labirinto"

  • Immagine del redattore: mizar106
    mizar106
  • 26 nov 2023
  • Tempo di lettura: 10 min


Per qualche istante, vi si fermarono davanti discutendo del cartello e della (misteriosa) illeggibile parola riportata sopra. Quindi fu la volta delle supposizioni. Per Lizzie la spiegazione più plausibile era una storia folle: e cioè che uno sciagurato avventore benestante, un giorno, si fosse schiantato dentro il bosco e, urtando violentemente sulla roccia, si fosse fracassato la bocca e avesse perso i denti. Così, non sapendo come fare, avrebbe chiesto aiuto nel villaggio, promettendo un bel compenso a chiunque fosse stato abbastanza abile da addentrarsi dentro il bosco per andare a prenderli. La vice-motivazione della scelta (così preferiva chiamarla lei), era che al di là di tutto, rintracciare quei denti misteriosi sarebbe stato comunque più allettante che seguire un fiume. 
Proseguirono in salita su un pendio ombreggiato, tappezzato di chiazze umide di muschio e cortecce morte, e dove un esercito di massi irregolari bucava il suolo. 
All’improvviso, Rachel posò gli occhi su un vivace cardellino colorato posato a un ramo, e nel vederlo così tranquillo tirò un sospiro. Per la prima volta, avrebbe voluto rinunciare a tutto e tornare a casa. Perché si sentiva un po’ agitata e la paura di addentrarsi ancor più a fondo le strozzava il fiato . 
Tornò a guardarsi indietro e all’improvviso fu come se le vecchie e basse case del villaggio non fossero mai esistite. Poi, spinta da un sussulto improvviso, si bloccò e tirò indietro il piede. Quindi si mise a guardare in alto. 
Una graziosa capinera aveva preso a canticchiare sopra un ramo come per distrarla. D’un tratto, non fece in tempo a rigirarsi che Lizzie la prese per un braccio e la trascinò via:
“Rachy, guarda!” esclamò sorpresa.
Rachel fece uno strano scatto e, facendo attenzione a dove metteva i piedi, le si scrollò di dosso. Quindi si mise a guardare dritto. Davanti a loro, in una zona in cui la vegetazione era più rada, una distesa di radici e spessi tronchi s’espandeva a vista d’occhio tra la roccia, formando una ampia conca frastagliata tra una sponda e l’altra. E nel suo punto più profondo, la roccia si sgretolava in una striscia granulosa che sembrava ghiaia:
“Dio Rachy, che bellezza! Non è grandioso?” esultò Elizabeth con un saltellino. Rachel fece un lungo respiro come se le mancasse il fiato:
“Si è bellissimo, però...” attaccò ansimando. “Ad essere sincera, lo trovo un po’ angosciante. A ogni modo, non credo di essere mai stata un posto simile. Questa foresta... sarà anche bella finché vuoi ma a me sembra parecchio strana.” 
“Come i boschi delle favole, hai presente?” aggiunse Lizzie con un sorriso. 
“Beh, se ci pensi, confrontandoli con Pracklewood il paesaggio è pressoché identico e poi, chissà quanti Kobara abitano da queste parti... oh! Davvero non vedo l’ora di incontrarli, non è magnifico?”
Rachel la interruppe indicandole qualcosa in lontananza con il braccio alzato:
“Guarda Lizzie, probabilmente doveva esserci un torrente laggiù, oppure, chissà, forse un volta era persino un fiume”. 
“Cioè, quella striscia stretta e lunga là nel centro, vero?” 
"Si, quella ricoperta di sassi bianchi.”. 
“Però se guardi bene, quel masso laggiù in fondo è così grande... chissà se prima c’era una cascatella...”. Esitò per un istante e poi, con un’espressione vagamente sconsolata accennò una smorfia:
“E inoltre, chissà quel corso d’acqua com’era limpido... e pensare che in campagna i nostri fiumi sono così grigi... Lizzie, tu... hai mai visto una cascata? Intendo una cascata vera, un po’ come quelle che si vedono nelle riviste, hai presente?”
Lizzie rimase come impietrita e non disse nulla. Poi, con occhi ancora colmi d’emozione, si voltò verso l’amica e sorridendo disse:
“Rachy, dobbiamo assolutamente fermarci qui, è una questione di vita o di morte. Per gli spiriti ovviamente! Dico sul serio. Questo posto è così bello e inoltre, questi alberi col tronco così grande, chissà da quanto sono qui...”
“Si, però, qui attorno è tutta roccia e poi...” Rachel fece una breve pausa, poi disse:
“Insomma, per me è troppo rischioso e anche se ci tenessimo per mano potrei cadere. Lizzie, scusa se te lo dico solo ora ma... non credo di poterti accompagnare più di così. In realtà... beh ecco, referisco rimanere qui. Tu però, non preoccuparti, posso aspettarti se vuoi andare. Non voglio che ci rinunci a causa mia, non sarebbe giusto.”
Gli occhi di Lizzie si strinsero in due fessure:
“Ti sei stancata non è vero?” disse, fissando tutt’un tratto la punta della propria scarpa che sfregava a terra.
Rachel serrò le labbra contro i denti e provò a sorridere:
“Un pochino forse. Ma non preoccuparti” disse con leggerezza. “Magari, mentre provi a cercare questi spiriti, potrei riposare qui, cosa ne pensi? Dopo tutta questa strada, le gambe stanno tornando a farmi male ma me l’aspettavo...”
Lizzie le restituì un’occhiata benevola e rapidamente si sfilò la borsa. Si mise quindi a rovistarla, setacciandola negli angoli e sul fondo fino ed estrarne un fagotto colorato e del fil di juta.
“Avremmo dovuto fermarci molto prima, giusto?” disse quasi con tristezza. Quindi proseguì:
 “Scusami se non me ne sono accorta. Hai ragione, questo bosco è troppo grande per andare avanti. Allora, se anche per te va bene, ci fermiamo qui”.
Rachel fece un sorrisino e con una mano si riparò la vista. Sopra di lei, il vento sibilava tra le foglie generando una pioggerella di luce bianca.
“Questa la lascio a te, ecco.” E così dicendo Lizzie le allungò la borsa. Poi l’amica tutt’ un tratto cambiò discorso:
“Comunque i Kobara..., chissà se vanno matti per le fragole... quelle dell’orto mio nonno ad esempio, sono molto buone, e sai, solitamente in questi mesi, ne vendiamo tante.”. 
Rachel fece un’espressione incuriosita ma rimase zitta. 
“A proposito di nonno e del suo orto, pensa che una volta, mamma lo ha sorpreso in piena notte mentre ci frugava dentro. Secondo lui era successo perché non mangiava le nostre fragole da mesi ed era in astinenza. Perciò non riusciva a dormire bene. Poi mamma lo ha sgridato e siccome non gli ha creduto più nessuno, ha iniziato a piantar grane minacciandoci che avrebbe assunto dei banditi per rubar le fragole. Ah ah! Povero nonno... a volte quando vuole le spara davvero grosse ma gli voglio bene.”
Rachel le sorrise e afferrò la sacca:
“Lizzie appena hai fatto si rientra, ok? Tuo zio andrà su tutte le furie se non ci trova...”
L’altra le diede un colpetto al braccio e disse:
“Tranquilla, farò presto, te lo prometto”. 
Rachel s’infilò la borsa in spalla e guardò l’amica allontanarsi assieme al gatto, poi, come per istinto, fece uno strano scatto:
“Lizzie, aspetta...” sussultò.
“Cosa?” 
Lei fece un’espressione corrucciata e tirò un sospiro:
“Ti prego, fa attenzione. Ci si può far male.”
Lizzie alzò testa e con una risatina le mormorò qualcosa per rassicurarla, quindi si voltò verso Pasticcio e con un buffo movimento delle dita, gli mimò un animaletto finché lui non fece un balzo e in un istante le si fiondò in braccio. Quindi, lentamente, lasciò il sentiero procedendo con il fagotto dei taringi legato in vita.
Rachel intanto, s’era appartata sopra un tronco e adesso si sentiva più tranquilla perché riusciva a seguirne i movimenti e tenerla d’occhio. Dopo alcuni minuti di silenzio, lei l’aveva chiamata con un grido e Lizzie per rassicurarla, aveva fatto lo stesso.
Mentre aspettava, appoggiò un gomito al ginocchio e con il pugno tenne sollevato il mento. Quindi tirò un sospiro sconsolato e si concentrò su un buco ovale un po’ deforme che s’allargava nella corteccia di un vecchio tronco. 
Non fosse stato per la sua salute, avrebbe potuto accompagnarla e starle accanto assicurandosi che non si cacciasse in qualche guaio o si facesse male. Non che stesse rinunciando a chissà cosa, naturalmente (alle fiabe ed ai fantasmi aveva smesso di credere da molto tempo), ma sentiva un po’ a disagio e adesso che era sola la paura s’era rafforzata.
Si concentrò su quel paesaggio così nuovo, percorrendone con gli occhi la distesa da una parte all’altra. Quando di colpo sentì un brivido, un senso opprimente di fastidio le crebbe dentro:
Lizzie accidenti... con te non si può star mai tranquilli! Esclamò tra sé. Immersa in quei pensieri, aveva finito per perderla di vista e adesso si sentiva in colpa. 
Fece un respiro profondo e con un grido liberò i polmoni. Quindi si bloccò ascoltando, concentrandosi sui suoni, fissando enormi piante che si disperdevano come un esercito di statue dentro la distesa. E a quel punto, il microscosmico respiro della foresta le fece visita; il vento che soffiava, il crepitio di qualche ramo, il fruscio di un di una lucertola impaurita tra i germogli in fiore, ma qualunque fosse il suono che sentiva, della sua amica ancora nessuna traccia. 
La richiamò allora una seconda volta, a voce alta, ma con meno forza, poi una terza e una quarta ancora, spezzando ripetutamente il fiato come se qualcosa la stesse bloccando dentro. Quando di nuovo si fermò, il cuore le martellava il petto e il respiro era affannoso e cupo. Nervosamente, raccolse la stampella e attraversò il sentiero, spostandosi sul bordo in una zona dissestata in cui un gradone sporgeva in basso. Ma anche osservando da quel punto non riuscì a vederla. 
Ecco, ci risiamo! Pensò tra sé sempre più stizzita. Che razza d’imbrogliona... ma almeno lo avrà capito che la sto aspettando? Diamine, deve sempre allontanarsi senza dire niente quella zuccona... forse sarà meglio andarle incontro, non vorrei si fosse persa. Magari non mi sente ed è lontana... e se invece fosse nei pasticci? Oh accidenti!
Con affanno, studiò le increspature del terreno che s’incuneavano come ferite nella roccia fendendo il suolo, inseguendone il percorso, e ritirando poi lo sguardo sui suoi i piedi prima d’iniziare a scendere. Poi riprese fiato e stringendosi energicamente alla stampella allungò una gamba. Mentre scendeva, sentì il tenue calore del mattino sfiorarle il collo e accarezzarla come un’anima accogliente fino poi svanire. 
Procedette scavalcando qualche masso, cautamente, per parecchi metri, oltrepassando radici così spesse da dovercisi sedere sopra per continuare a scendere. Quindi, sul finir della discesa strinse tutt’un tratto i denti. Un senso di bruciore l’assalì tra la caviglia e la parte posteriore della coscia destra. Lei allungò la stampella su un gradone e poi, facendo leva su di esso, ci si trascinò sopra. Quindi prese a guardarsi attorno. E a quel punto, un senso d’incanto e smarrimento le rubò il respiro; dal punto in cui era seduta inizialmente, lo scorcio era incredibile e l’aveva colpita molto, ma ora stava rischiando di cadere e il cuore le scalpitava in gola. Aspettò qualche secondo per riprender fiato, quindi attese, ascoltando il proprio respiro irregolare che piano piano riprendeva ritmo. Quindi si concentrò sulla sua amica, chiedendosi se per capire dove stava non ci fosse una qualche altra direzione che potesse prendere. Ma da qualunque parte osservasse, non vedeva che un susseguirsi di sporgenze, fessure e rocce aguzze che sbucavano dal suolo come denti di un’enorme bocca. Non appena si calmò, sbirciò attentamente sotto i rami di due grossi faggi, e vide che proprio in quella direzione c’era una linea scura. Avanzò timidamente, aiutandosi con la sua piccola stampella per farsi strada, infine, s’appoggiò su un masso. Lo scheletro di un tronco le ostacolava nuovamente la visuale e lei, per vederci meglio, ci si sedette sopra. 
La linea irregolare che vedeva era una spaccatura. Una crepa stretta e buia che s’incuneava zigzagando nella roccia fino a biforcarsi. Non appena la osservò, un brivido violento le tolse il fiato; e se Lizzie, sciaguratamente, ci fosse finita dentro? 
Tutt’un tratto, ripensò alla buffa storia dell’esploratore che aveva perso i denti, e subito ebbe come una rivelazione. Il posto che Lizzie raccontava era con quasi ogni probabilità lo stesso in cui si trovava adesso, solo che non si trattava di denti umani, ma bensì della natura che con le sue prodigiose dita, aveva modellato quel terreno disseminandolo di rocce di ogni altezza e forma.
Attese di recuperare un po’ di forza e poi, afferrando nuovamente la stampella tese in avanti il braccio. Con occhi ormai colmi di terrore, prese ad accelerare il passo, balzando sopra un sasso e poi su un altro, agitando con veemenza la stampella per trovar sostegno. Mentre correva, si sentì schiacciare il petto così forte che ben presto si sarebbe messa a urlare. 
Si fermò su una sporgenza che protrudeva lungo il bordo della crepa per diversi metri. Quindi mise da parte la stampella ed esausta, vi si posò sopra. Poi, con una smorfia di dolore accovacciò le gambe e, trascinando le ginocchia sulla pietra, raccolse le ultime briciole di fiato e chiamò l’amica. 
Passarono alcuni secondi di silenzio, lunghi e interminabili, e svuotati di ogni suono o traccia umana che non provenisse dal suo corpo ansante. 
Non appena recuperò fiato si chinò e, procedendo a tentoni sulla roccia, si sporse leggermente sulla crepa e vi sbirciò dentro. Era profonda non più di qualche metro, con ruvide pareti incrostate che scivolavano fino a congiungersi sul fondo in un punto buio.
Poi un fremito improvviso le rubò il respiro. Aveva appena immaginato di rialzarsi, e correre a perdifiato lungo il ciglio, seguendone il percorso fino a trovare la sua amica nel burrone, riversa a pancia in giù con Pasticcio che le miagolava a fianco. Davanti a quell’immagine agghiacciante, istintivamente, prese ad asciugarsi gli occhi. Trasse un respiro turbato e poi, sostenendosi sui gomiti, si girò su un fianco. Ritraendo il busto, fece scivolare un piede sopra il masso quando un suono breve e acuto, proveniente da un punto imprecisato lungo la fessura, le balzò all’orecchio. Nuovamente alzò la testa lanciando un urlo. Passò qualche secondo e di nuovo un breve fischio le balzò alle orecchie, ma ora il suono era più chiaro e quando capì che si trattava di un richiamo provò un sollievo:
“Lizzie... Lizzie! Dove sei?”
La sua voce era tesa, esausta, ma traboccante di speranza mentre seguiva con lo sguardo la fessura che zigzavava come un serpente teneborso sotto i suoi piedi. E dal punto in cui si trovava adesso, non la vedeva ancora, ma almeno poteva udirla; e anche se non distingueva ancora la sua voce, sapeva che era viva e questo era già abbastanza.
In tutta fretta, raccolse nuovamente la stampella e scese giù dal masso. Dopo appena qualche metro, si ritrovò in un tratto stretto circondato da arbusti rampicanti e rocce color smeraldo. Appena oltre, il varco s’incuneava leggermente verso il basso formando un solco. Rachel esitò, studiando la discesa per capire quali massi attraversare per arrivare in fondo.
Coraggio Rachel, usa queste maledette gambe, avanti! Pensò tra sé come se un fremito d’orgoglio la stesse mordendo dentro. Già, ancora un altro sforzo e finalmente avrebbe ritrovato la sua cara amica. Rapidamente, mise da parte stampella e si calò su una sporgenza irregolare vicina al solco. Quindi vi si trascinò sopra, muovendosi sui gomiti, con le ginocchia che sfregavano la roccia e le facevan male. Gattonò stringendo i denti, allungandosi tra una roccia e poi quell’altra, muovendosi ogni volta in modo tale da far pendere le gambe sul successivo appoggio. Mentre scendeva, sentì le gambe irrigidirsi e cristallizzarsi sottopelle come vetro vicino ai tendini. Dopo circa una decina di minuti, raggiunse una radura dove rocce lamellari frammentavano il terreno in vari punti verso uno spazio incolto. 
All’improvviso ebbe come la sensazione che qualcosa di veramente orribile stesse per accadere, e che doveva fare in fretta altrimenti per la sua amica poteva esser tardi.
 

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